Il lavoro, la felicità e le nuove generazioni

È un concetto assodato, per quanto ancora ci sia da fare affinché diventi la realtà prevalente, che un’azienda abbia il compito anche etico di operare a favore del contesto sociale in cui opera. Si parla troppo poco invece del compito delle aziende di generare benessere non solo economico, ma anche dell’individuo: di coniugare lavoro e felicità.

Lavoro e felicità

Ma cosa si intende? Essere felici al lavoro, non significa solo fare quello che ci appassiona: troppo semplicistico. Il libro “Dialogo sul lavoro e la felicità”, Edizioni Egea, che nasce dal dialogo tra Paolo Iacci, Docente di Gestione delle Risorse Umane all’Università Statale di Milano e il Professor Umberto Galimberti, noto filosofo e psicanalista, porta riflessioni profonde calate nel mondo in cui viviamo, che appaiono paradossalmente ovvie nella loro semplicità. 

Se l’economia, come dice Iacci, ha leggi che non coincidono necessariamente con il benessere dell’uomo, la domanda che dobbiamo porci è se il lavoro possa ancora permettere all’individuo di realizzarsi nella propria unicità, o se invece non sia stato relegato ad essere un mezzo per garantire una vita più o meno agiata. Partendo da richiami letterari e filosofici, il dialogo si sofferma sulle ultime generazioni, un universo giovanile che ha il diritto di essere ascoltato e accompagnato verso un futuro sperabilmente migliore.

La narrativa “vita e lavoro” ereditata dai Baby Boomers (generazione ancora molto attiva in tutti i settori) ha perso il suo appeal nelle nuove generazioni. Essa si fondava sull’idea di lavoro inteso come nobile sacrificio (fino all’abnegazione) finalizzato ad un benessere economico garantito sul lungo periodo: la felicità non entrava nell’equazione.

Questi giovani non temono di affermare ciò che peraltro già alcuni di noi, gli X (nati fra il 1965 e il 1980), timidamente pensavamo: che la felicità non può ridursi ad un lusso confinato al tempo delle vacanze

La conseguenza di questo nuovo modo di voler vivere il lavoro crea incomprensione, sgomento, fino a sfociare in aperta irritazione. Capita di leggere testimonianze di imprenditori scandalizzati poiché i giovani non sono più disposti a cimentarsi in stage “non retribuiti”, o contratti di lavoro mal pagati e che forzano a ritmi estenuanti, ma che garantirebbero, a detta di questi ultimi, di permettere al giovane lavoratore di “fare la gavetta”. Si tratta di casi  limite fortunatamente: che l’imprenditore di successo sa bene quanto la gestione delle sue risorse faccia la differenza. Sono tuttavia sintomatici di un fenomeno generazionale importante.

Il mondo del lavoro rispetto a 25 anni fa è radicalmente cambiato: a tutti i livelli gerarchici, in tutti i settori, per tutti i profili. Erano gli anni, quelli di fine secolo, in cui un neolaureato aveva la speranza che seppur con difficoltà e una buona dose di impegno, sarebbe riuscito a trovare un’occupazione in linea con la sua formazione. 

Stiamo parlando oggi di giovani disillusi verso un mondo che sembra non interpretare e nemmeno comprendere le loro aspirazioni, ma anzi le banalizza: ragazzi cresciuti in un contesto tutto nuovo di formarsi e acquisire competenze, in un mondo in cui sono loro che inventano nuovi lavori, e che mentre lo fanno ci guadagnano, e pure molto in certi casi. Lavori che noi, non nativi digitali, fatichiamo a comprenderne i contenuti e le logiche, nemmeno pensiamo possano essere occupazioni serie.


La nuova gestione delle Risorse Umane

In questa straordinaria miscela di più generazioni che lavorano insieme, il compito e la sfida di chi opera in ambito risorse umane è di interpretare e comprendere il cambio di paradigma legato al mondo del lavoro cui dobbiamo prepararci e abituarci e non solo per attirare talenti e per trattenerli, ma per creare un nuovo modo di confrontarci che sia vincente da ambo le parti.

Per intenderci: la promessa ai giovani lavoratori di piani di carriera e sviluppo pluriennali non è più accattivante; nemmeno un contratto di lavoro full time, se vogliamo dirla tutta. E non è snobismo, ma disillusione.

E allora urge che i nostri imprenditori di oggi e di domani continuino a creare un ambiente di lavoro che permetta al giovane di sentirsi apprezzato e accolto per quello che può e vuole offrire, mantenendo un ascolto attivo e non giudicante verso una generazione cui presto o tardi passeremo il testimone: solo così potremo iniziare a parlare di lavoro e felicità.

Articolo a cura di Prisca Girardi – HR Development Manager di Business Up – originariamente pubblicato su Ticino Business, la rivista economica della Camera di Commercio del Canton Ticino (Cc-Ti). 

 

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